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di ottobre, la sto portando ad abortire.
È arrivata in centro con l'autobus, l'ho aspettata accanto alla fermata, mi ha
sorriso. Non so se soffre, non ne abbiamo parlato. Forse ha già abortito altre volte,
non gliel'ho chiesto. Sembra tranquilla. Si è seduta accanto a me e non ci siamo
baciati. In centro non corriamo questi rischi. È una passeggera prudente, una creatura
in transito fuori dal suo recinto. Stamattina è più severa, indurita come il cardigan che
indossa. Succhia la sua croce d'argento, e sento che c'è qualcosa che le manca,
qualcosa che ha dimenticato nella sua piccola tana. In lei c'è una riservatezza che mi
lascia un po' solo. Forse sarebbe stato più facile averla accanto piagnucolosa e
malinconica, come me l'aspettavo, invece lei stamattina sembra forte, ha occhi vispi,
combattivi. Forse è meno delicata di quello che ho creduto, forse sta solo cercando di
farsi coraggio.
«Vuoi fare colazione?»
«No.»
La clinica privata dove Manlio lavora è una villa d'inizio secolo circondata da un
parco di alberi d'alto fusto. Percorriamo il viale in salita fra i tronchi scuri, fino allo
slargo dove ci sono altre macchine. Italia guarda quella costruzione dall'intonaco
rossiccio.
«Sembra un albergo.»
Sa quello che deve fare, le ho spiegato tutto, andrà all'accettazione e dirà il suo
nome, la stanno aspettando, c'è una camera prenotata. Io naturalmente non posso
rimanere, è già sconveniente che l'abbia accompagnata fin lì.
La chiamerò nel pomeriggio. Salendo lungo il viale, Italia non se ne è accorta, le
ho guardato la pancia, per un attimo ho creduto che si potesse già vedere qualcosa, un
rigonfiamento. Non so cosa ho creduto di cercare lì sotto, qualcosa che non avrei più
visto... E una ruota si è affossata in una cunetta, ho dato gas, ho sentito uno sbalzo,
qualcosa di cui avrei avuto nostalgia per sempre. Se è vero che il tempo ha pratiche
diverse da quelle che crediamo, e se una vita intera può affacciarsi in un lampo, io
credo di aver visto in quella frazione di secondo mentre sterzavo per non finire in
quella cunetta, lo strazio che mi aspettava, ho visto anche te, Angela, il tuo ematoma
sul diafanoscopio. C'è stato un salto nella stanza circolare del tempo piena di porte
che sono tutte lì, nel cerchio, senza un ordine d'ingresso, quando l'irreale si affaccia e
diventa lecito.
Ho fermato la macchina sullo slargo davanti alla clinica. Italia ha guardato la
porta scorrevole di vetri bruniti, le ho raccolto la mano e l'ho baciata.
«Non ti preoccupare, è una sciocchezza.»
Si è voltata e ha preso la sua borsa patchwork.
«Vado.»
Scende e va diritta verso l'ingresso. Sto facendo manovra per andarmene. Nello
specchietto vedo i suoi passi, più instabili del solito, forse per colpa della ghiaia. Ma
so che non cadrà, è abituata a quei tacchi troppo alti, a quella borsa troppo lunga tra le
gambe. Invece cade, un ultimo passo e si accascia di botto. Riacchiappa la borsa, ma
non si alza, resta lì accovacciata in terra. Non si volta, è convinta che io sia già andato
via. Non ti muovere, dico, senza sapere quello che dico. E forse lei sa che ci sono.
Non ti muovere. Perché ora mi sembra che quella parte di lei che mancava l'abbia
raggiunta, come un brandello di stracci alati le sta coprendo la groppa.
Lascio lo sportello aperto e corro sulla ghiaia.
«Cos'hai?»
«La colazione... forse è meglio se la faccio.»
L'aiuto a rialzarsi, e mentre l'abbraccio sollevo lo sguardo oltre la sua testa. Al
primo piano, dietro una grande finestra scura c'è un uomo in camice che ci sta
guardando.
Ma sì! Ma se anche finisse adesso, se entrassimo nel buio così. Ho questi occhi
addosso, questa mano unta che mi trattiene. Nessuno mi ha mai amato così, nessuno.
Non ti porterò lì dentro, nessuna cannula ti pulirà. Io ti voglio, e adesso sono forte e
troverò il modo per non offenderti più.
«Pensa a te, pensa a te, davvero» sussurra.
Io ho già deciso, io ti amo. E se vuoi la mia testa, dammi un'accetta, ti darò la
testa di un uomo che ti ama.
«Andiamocene.»
E lo dicevo a nostro figlio, Angela. Una piccola foglia rossa era caduta senza
rumore sul vetro della macchina, e lì era rimasta accanto al tergicristalli. Una foglia
rossa, dalla nervatura esile, forse la prima della sua stagione, era caduta per noi.
Mi rimisi al volante, e ripresi a guidare, lontano dalla clinica. Ci fermammo in
uno dei primi paesi alle porte della città, a nord, dove il paesaggio cambia, diventa
più selvatico. La zona è ancora urbana, ma già si sente il respiro dei boschi, di quei
monti senza vette che si stagliano all'orizzonte come bisonti addormentati.
Ci infilammo in un cinema. Una di quelle sale di provincia che aprono solo il
sabato e la domenica. Il primo spettacolo era quasi vuoto, ci sistemammo al centro
sui sedili di legno. C'era freddo anche lì dentro, Italia posò la testa sulla mia spalla.
«Sei stanca?»
«Un po'.»
«Riposa.»
Rimase a sonnecchiare addosso a me nel buio, una guancia appena schiarita
dalla luce dello schermo. Era un film comico, un po' triviale, andava bene, andava
bene tutto. Eravamo una coppia, per la prima volta forse. Una coppia in vacanza che
va al cinema, si ferma a mangiare un panino, e poi prosegue il viaggio. Sì, mi sarebbe
piaciuto fare un viaggio con Italia, dormire negli alberghi, fare l'amore, ripartire. E
magari non tornare più. Potevamo andarcene all'estero, avevo degli amici a
Mogadiscio, uno era un cardiologo, lavorava in un ospedale psichiatrico, aveva una
casetta sul mare, la sera fumava marijuana in compagnia di una donna dalle gambe [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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